Sei giovani su dieci – ovvero il 63,3% della popolazione tra i 18 e i 34 anni – vivono ancora in casa dei genitori. La fotografia scattata dall’Istat inquadra lo stallo in cui si trovano 6,5 milioni di ragazzi: in parte già occupati (2,5 milioni), in parte in cerca di lavoro (1,3 milioni) e in parte ancora alle prese con lo studio (altri 2,5 milioni). Dal 2025 la manovra di Bilancio limiterà ai soli genitori di ragazzi di età inferiore a 30 anni la possibilità di avere la detrazione fiscale per i figli a carico.
Dal 1° marzo 2022, con il debutto dell’assegno unico universale, il bonus fiscale era stato limitato ai figli a carico da 21 anni in su. Dal 2025, in forza del Ddl che il governo ha inviato in Parlamento, si aggiungerà un limite d’età massima dei figli (ad eccezione dei disabili, a cui viene riconosciuto anche l’assegno unico universale senza limiti di età). Il risparmio a regime per le casse pubbliche – stima la relazione tecnica – sarà di 319,5 milioni di euro all’anno. L’impatto sui singoli contribuenti non è indicato ma, anche se il confronto non combacia perfettamente, le statistiche delle Finanze indicano che nell’anno d’imposta 2022 il beneficio fiscale annuo per i familiari a carico – non solo figli – è stato in media di circa 470 euro. Sempre secondo l’Istat, tra i 6,5 milioni di giovani fino a 34 anni che vivono in casa, ce ne sono 330mila con più di 30 anni che non lavorano. La percentuale più alta di coloro che restano a casa (68,2%) vive al Sud e nelle Isole.
Cosa ci dicono questi numeri? Intanto, che secondo l’Istat un/a trentaquattrenne è considerato un/a “giovane” quando per chi scrive, a 34 anni non si è più ragazzi o ragazze ma uomini e donne da un pezzo.
I dati del Mezzogiorno ci dicono anche che per molti vivere con i genitori rappresenta una necessità economica più che una scelta di vita. Ma l’analisi è sin troppo semplicistica. Perché per tanti “giovani” la scelta non è obbligata ma è appunto una scelta, ovvero anche una questione di comodità: emulando il ventottenne Tanguy del film del 2001 diretto da Étienne Chatiliez, restare a casa con mamma e babbo consente di non dover pagare affitto/mutuo/vitto con ampie libertà e spesso in assoluta armonia – dal punto di vista dei figli, almeno – con genitori ancora giovani e dinamici e dunque più aperti. Non si chiamano più bamboccioni ma “adultescenti” (kidadult nel mondo anglosassone), neologismo che individua donne e uomini la cui identità presenta ancora i tipici tratti di immaturità emotiva e sociale degli adolescenti, pur avendo raggiunto un’età crono-biologica adulta. Normalmente, il periodo adolescenziale dovrebbe servire da passaggio verso la vita adulta, per svincolarsi dal nucleo di origine grazie a un processo, anche tormentato, di separazione e di auto-affermazione. Quindi l’adultescenza, in certi casi, rischia di diventare una patologia. Per i figli. E per babbo e mamma una condanna. Assai costosa.
Alla fine di ottobre del 2023 la provincia Pavese ha pubblicato la storia di una 75enne di Pavia, stanca di vedere i figli ancora in casa sua, nonostante avessero superato i 40 anni e fossero entrambi in grado di mantenersi da soli visto che hanno un lavoro, . Più volte aveva chiesto ai due eredi, il primo di 42 anni e l’altro di 40, di trovarsi una loro sistemazione. Inutilmente. Così la donna ha deciso di portarli in tribunale e una giudice le ha dato ragione: i due figli hanno dovuto lasciare l’abitazione materna. Nella sentenza si sottolinea che se “la permanenza nell’immobile agli inizi poteva ritenersi fondata”, in quanto basata “sull’obbligo di mantenimento gravante sulla genitrice, non appare oggi più giustificabile”, considerato il fatto che “i due resistenti sono soggetti ultraquarantenni”. A giudizio del Tribunale di Pavia è quindi venuto meno l’obbligo di ospitalità in casa, in quanto non e’ presente “nell’Ordinamento alcuna norma che attribuisca al figlio maggiorenne il diritto incondizionato di permanere nell’abitazione di proprietà esclusiva dei genitori, contro la loro volontà e in forza del solo vincolo familiare”. Presentando la causa, il legale della donna ha citato anche una sentenza del Tribunale di Modena che descrive la convivenza in casa del genitore come “un comodato senza determinazione di durata”, che prevede quindi la restituzione dell’immobile quando il proprietario lo richiede.
