Il 2025 sarà l’anno del risiko bancario, è la scommessa nelle sale operative dove si guarda alla doppia mossa di Andrea Orcel, l’ad di Unicredit che punta a conquistare il Banco Bpm in Italia e Commerzbank in Germania.
Atri tempi, altre nozze e, oggi, un anniversario. Quello della fusione tra Sanpaolo Imi e Banca Intesa, annunciata ad agosto 2006, si è poi concretizzata nel dicembre dello stesso anno, con effetto dal 1º gennaio 2007. Il giorno successivo Intesa Sanpaolo diventa operativa. Ma come si è arrivati a quelle nozze?
Nel 2013 la casa editrice bolognese de Il Mulino – punto d’incontro internazionale tra pensiero liberale, cattolicesimo democratico e socialismo, ovvero il milieu culturale in cui si è formato anche Romano Prodi – ha pubblicato un libro dal titolo Una storia italiana – Dal Banco Ambrosiano a Intesa San Paolo, firmato da Carlo Bellavite Pellegrini, docente di Finanza aziendale alla Cattolica di Milano. In cinquecento pagine si traccia la biografia di una banca ma anche di un banchiere, Giovanni Bazoli, che ha incaricato Pellegrini di ricostruire le vicende dell’istituto nato sulle macerie lasciate trent’anni fa da Roberto Calvi. Fra i documenti citati nel testo ci sono anche i diari di Carlo Azeglio Ciampi scritti fra il 1982 e il 1999 quando era governatore della Banca d’Italia e messi a disposizione dallo stesso ex presidente della Repubblica per ripercorrere la storia di un’impresa bancaria. Una delle sue ultime annotazioni è emblematica: il 9 settembre del 1999 Ciampi vede Andreatta e scrive: «Circa Partito Popolare, spera nella nomina di Castagnetti: al mio accenno a Bazoli risponde che è bene tenerlo di riserva come possibile leader di un centrosinistra nuovo».
In realtà, secondo la ricostruzione assai realistica che circola nei palazzi romani, sarebbe stato proprio quello di Bazoli il nome scelto inizialmente da Andreatta per guidare l’Ulivo, ma il professore bresciano era ancora impegnato nel complicato rilancio del Banco Ambrosiano che gli era stato affidato dallo stesso Andreatta. E quel ruolo venne affidato a Prodi. Poi, però, la candidatura del banchiere bresciano torna d’attualità in vista delle elezioni politiche del 2001. In quel periodo il problema cruciale per il centrosinistra consiste ancora una volta nella scelta del leader da contrapporre a Silvio Berlusconi. Uscito di scena Prodi (dopo aver vinto le politiche del 1996 è stato costretto alle dimissioni nel 1998, per poi essere eletto presidente della Commissione Europea), acquista credibilità l’ipotesi di trovare nuovamente un candidato tra gli esponenti della società civile, un personaggio estraneo alla militanza politica. Ecco allora che Andreatta, nel suo ultimo discorso ai gruppi parlamentari del Partito Popolare e prima dell’ictus che lo avrebbe relegato per molti anni fra la vita e la morte, evoca la figura di Bazoli definendolo «il federatore»: il riferimento è alle aggregazioni bancarie che lo avevano visto protagonista, l’allusione è alle sue potenziali capacità di costruire e guidare un’aggregazione dei partiti usciti dall’esperienza dell’Ulivo. La risposta definitiva arriva da Bazoli – allora al vertice di Banca Intesa – con un’intervista rilasciata al direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, nel giugno del 2000: «Una regola che mi sono posto è quella di tenere separata l’attività di banchiere dalle mie passioni politiche. Per questo non posso accettare l’offerta». Inoltre, sebbene sia animato da uno spirito arguto, Bazoli ha un carattere estremamente riservato. Difficile immaginarlo in un testa a testa con qualche capo di partito più a suo agio con i decibel che con gli argomenti. Eppure la politica Bazoli pare avercela nel Dna. Suo nonno Luigi, avvocato, militò nel Partito Popolare con don Luigi Sturzo; suo padre Stefano – cattolico di frontiera e antifascista – fu membro alla Costituente e poi deputato Dc nella prima legislatura, mentre conduceva a Brescia uno studio legale assieme a Ludovico Montini, fratello di papa Paolo VI.
Anche il figlio Giovanni si laurea in giurisprudenza alla Cattolica di Milano, dove conoscerà Andreatta e proseguirà la carriera accademica fino al 2003 come docente di diritto amministrativo e diritto pubblico. Ma il suo destino è un altro: diventare uno dei protagonisti della finanza italiana dagli anni Ottanta a oggi. La svolta risale infatti all’agosto del 1982, quando il crac da 1.500 miliardi di lire del Banco Ambrosiano, che raccoglieva le finanze di Ordini religiosi e di grandi famiglie lombarde, giunge al suo epilogo con la drammatica e ancora oggi misteriosa morte del banchiere Roberto Calvi, trovato impiccato sotto al ponte dei Frati Neri di Londra. Il ministro del Tesoro dell’epoca è Andreatta che, d’intesa con il governatore di Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, chiede a Bazoli di prendere il timone del Nuovo Banco Ambrosiano che dovrà nascere dalle ceneri dell’istituto in liquidazione coatta. A quel tempo Bazoli è un avvocato 49enne che esercita nello studio di famiglia, insegna alla Cattolica e riveste il ruolo di segretario del consiglio di amministrazione del Banco San Paolo di Brescia.
La missione comporta rischi altissimi: farsi carico dell’eredità del Banco Ambrosiano significa affrontare alcuni dei più gravi problemi, non solo economici, dell’Italia. In quel momento la vita nazionale è infatti segnata da vicende inquietanti e torbide che sembrano minacciare le stesse istituzioni democratiche, nodi oscuri strettamente intrecciati al dramma che si sta consumando all’Ambrosiano. È scoppiato da poco lo scandalo della P2. La mafia dilaga e colpisce a morte il generale Dalla Chiesa. Le commistioni tra politica ed economia sembrano inestricabili. Calvi viene trovato impiccato sul Tamigi. Il tracollo del Banco Ambrosiano è uno shock per tutta l’Italia, ma colpisce soprattutto la borghesia milanese: «Fu un trauma. Ma anche grazie a quel trauma, è cambiata la storia del nostro sistema bancario», racconta lo stesso Bazoli nel 2007 in un’intervista a Repubblica. La sua «sofferta» decisione di accettare la presidenza – fa registrare a verbale – è stata ispirata da un senso di «dovere civile». E gli pare «significativo» che la scelta del presidente del Nuovo Banco Ambrosiano sia stata offerta a un esponente della San Paolo Brescia, che col Banco Ambrosiano aveva avuto in comune a fine ‘800 il fondatore: un altro avvocato bresciano, Giuseppe Tovini, il grande apostolo della finanza cattolica, beatificato da Papa Wojtyla nel 1998. È alla sua «figura illuminata» che Bazoli fa appello in una linea di «continuità spirituale e operativa che conduca la nuova banca al servizio della comunità».
Il Nuovo Banco Ambrosiano deve recuperare rapporti e credibilità a tutto campo, dai vecchi azionisti alle banche estere, dalle istituzioni al mondo ecclesiale: un patrimonio anche morale che era stato distrutto dalla gestione precedente. Il primo passo sarà la fusione con la Banca Cattolica del Veneto che darà vita all’ Ambroveneto, ma è solo l’inizio di una completa trasformazione del sistema bancario italiano in cui l’opera diplomatica del professore bresciano si rivelerà decisiva. Da avvocato di provincia a «banchiere per caso», Bazoli diventerà l’artefice di un matrimonio dopo l’altro: prima tra l’Ambroveneto e la Cariplo, più tardi battezzata Banca Intesa, poi tra Intesa e Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, per culminare con l’acquisizione della Comit, la più prestigiosa tra le ex banche pubbliche italiane nonché la più importante banca laica del Paese. Un lungo percorso che porterà, dopo la fusione avvenuta nel 2006 fra Intesa e il Sanpaolo di Torino, alla nascita del big del credito di cui ancora oggi è presidente emerito.